Vinodivite

RABOSO 2009 – LORENZO GATTI

Quella di Lorenzo Gatti, Ponte di Piave, Treviso, è una di quelle cantine dedite alla vitivinicoltura 100% naturale, quindi agricoltura biodinamica, vinificazioni tradizionali senza additivi, fermentazioni con lieviti indigeni a temperatura non controllata, niente solforosa aggiunta, nessuna chiarifica e nessuna filtrazione.
Superficie vitata di 5 ettari, 2 vini prodotti, 13000 bottiglie totali: un prosecco sur lie, colfondo come si chiama da noi, e il raboso che stó roteando adesso nel bicchiere.
Vini sinceri, genuini, contadini, prodotti da madre terra, da madre vite, dal sudore dell’uomo, e basta.image

Raboso, bottiglie prodotte 3000 circa, uve di raboso di viti di 30 anni di età media, vendemmiate i primi di Novembre, fermentazione con lieviti indigeni, macerazione sulle bucce per 10 giorni senza controllo della temperatura, nessuna chiarifica, nessuna filtrazione, 1 grammo ( quindi niente) di solforosa al travaso o all’imbottigliamento.
Affinamento di 8 mesi in botte di cemento e in bottiglia per almeno 3 mesi.
L’uva raboso, racconta il produttore quando era bambino, veniva raccolta i primi di Novembre nei giorni dei morti, regalava un vino di grandissimo spessore ma indomabile; un vino che era un ottimo compagno di viaggio, anche per i viaggi in nave, che grazie alla sua elevata acidità si conservava benissimo.
Oggi come allora viene coltivato e vinificato seguendo la tradizione contadina, secondo i crismi dell’agricoltura biodinamica; in cantina non è cambiato nulla, come i suoi nonni il produttore non interviene durante il processo vinificatore con “robacce” varie.
Il risultato è un vino che racconta bene la sua terra, e incarna appieno l’indole e le tradizioni contadine.
Un vino rustico, semplice, a tratti nervoso al palato, e forse anche un po’ scorbutico, ma che ci regala sensazioni di altri tempi, primitive, ancestrali, insomma dei rabosi convenzionali ha in comune solo il nome.
Di solo 11 gradi alcolici, appena stappato e versato, la curiosità di infilare il naso nel bicchiere si trasforma in delusione quando invece dei profumi attesi ci si scontra addosso un’intensa volatile acetosa. Rilascio il bicchiere, inizio a cucinare e attendo, attendo, attendo; dopo 1 ora, ancora le note volatili girano nell’aria sovrastante il vetro, ma iniziano a fare capolino dei profumi di melograno, di marasca poco matura appena accennata, di violetta, china, insieme con tanto lievito, zolfo, fecce, selvatico, pelle animale, fogliame e sottobosco.
Riposo il bicchiere sul tavolo e attendo un’altra mezz’ora.
L’acetoso svanito, le feccie fanno il percorso inverso e ritornano ai profumi dell’ uva sulla pianta, note marascate, tanta violetta, china, rabarbaro.
Mi colpisce il colore rosso rubino molto intenso quasi denso, con sfumature granate che si fanno quasi aranciate all’unghia.
All’assaggio appare molto secco, austero, severo, tanta acidità di base, si percepisce terroso, ematico, con note di tabacco, frutti di bosco acerbi, humus, funghi.
Col tempo acquisisce morbidezza, eleganza, la cattiveria iniziale si addolcisce, appare più vellutato, il nervosismo e gli scatti d’asprezza e le punte di frutta acerba a tratti si percepiscono ancora ma sono isolati, il sottofondo rimane godibilissimo, l’acidità è ben equilibrata dai tannini sempre più morbidi e meno aggressivi. Ci si adagia sopra questo tappeto di velluto fatto di frutta sotto spirito, marasche, prugne, a tratti ancora sensazioni ferrose, ma passeggere; si và verso un finale lungo e piacevolissimo di liquirizia, spezie, rosmarino, balsamico.